da Aeronautica Giugno 1996
Mattino di Primavera - Il collaudo del Sagittario
di Costantino Petrosellini
Questa mattina, 19 maggio 1996, inconsciamente mi sono svegliato alle prime luci dell'alba, sono andato alla finestra ed ho guardato il cielo. E' limpido e sereno: e lo smog ed i rumori della città non hanno ancora inquinato l'ambiente immerso, a quest'ora, prevalentemente nel sonno.
Ho cercato sulla sedia accanto al letto la mia combinazione di volo, come quarant'anni fa, la stessa ora, lo stesso giorno, il 19 maggio 1956. L'ho ritrovata, nella mia memoria: e l'ho indossata di corsa, mi sono sciacquato il viso, ho preso la macchina e mi sono precipitato a Pratica di Mare.
Con gli occhi chiusi, seduto sulla sponda del letto, ho rivissuto attimo per attimo quel giorno così importante della mia vita di pilota. Giorno del quale ho ripercorso oggi ogni istante, ogni emozione, ogni palpito.
E' necessario dire cosa significa nella strada aspra ed entusiasmante di un aviatore il primo volo di collaudo di un prototipo?
Mentre ero al Centre d'Essais en Vol di Bretigny (Francia), nel 1954, a seguire il corso per piloti collaudatori, mi era stato comunicato che ero stato prescelto per portare in volo il primo caccia a reazione costruito in Italia nel dopoguerra, il "Sagittario" che doveva essere prodotto nelle officine Aerfer di Pomigliano d'Arco.
Finito il corso in Francia, lasciai il Reparto Sperimentale di Volo e mi spostai a Napoli. Tutto il 1955 e l'inizio del 1956 li passai nel capannone dell'Aerfer dove il Sagittario stava prendendo forma. Ogni più piccolo particolare, ogni centina, ogni trasmissione, ogni impianto mi passavano sotto gli occhi e le mani: partecipavo alla costruzione insieme ai bravissimi tecnici dando loro l'aiuto che potevo, anche in funzione di tutto ciò che avevo imparato nell'impegnativo corso a Bretigny.
La cabina di pilotaggio, poi, mi occupava la mente e il cuore: ogni comando, ogni strumento, ogni particolare doveva rispondere ad un preciso criterio di ergonomia, dovuto al fatto che il complesso non doveva soltanto servire al pilotaggio ed all'impiego del velivolo, ma anche all'esecuzione delle prove di volo, severe, già programmate.
L'aereo, infatti, doveva rispondere ai requisiti di un caccia Intercettore dalle prestazioni transoniche. Sulla carta, erano previsti un "mach critico" ben superiore ad 1, una tangenza di oltre 45.000 piedi (13.500 metri), con prestazioni di decollo ed atterraggio particolarmente brillanti.
Per ottenere tutto ciò, il progettista ing. Sergio Stefanutti (uno dei grandi geni dell'aerodinamica che l'Italia poteva vantare) aveva studiato un'ala con 45 gradi di freccia (molto, all'epoca: l'F-86 aveva una freccia di 37 gradi), con profilo laminare a spessore variabile lungo 12 m (per migliorare le caratteristiche di stallo e di manovrabilità), nonché una particolare distribuzione delle masse (motore Rolls-Royce in posizione anteriore, con getto al di sotto della fusoliera) serbatoio principale del carburante nella parte posteriore della fusoliera e armamento (2 cannoni da 30 mm.) e munizionamento in posizione esattamente baricentrica.
In totale, 3.200 kg. di peso totale (in configurazione "intercettore") con una spinta di oltre 1.800 kg. del motore.
A febbraio 1956 cominciarono i rullaggi sulla pista di Pomigliano d'Arco. Nelle ore in cui non c'era l'attività della Scuola di volo dell'Accademia Aeronautica, per giorni e giorni, avanti e indietro sulla pista a provare freni, movimenti dei comandi (servocomandi idraulici), risposta del motore, radio, osservando temperature, regimi, consumi.
Poi, alla fine di aprile, dopo tutto questo lavoro (necessario anche per arrivare ad una perfetta simbiosi velivolo-pilota), il Sagittario fu installato su un particolare pianale di un rimorchio di un enorme camion per essere spostato a Pratica di Mare per i voli di collaudo in quanto la possibilità di effettuarli a Capodichino era stata scartata per la vicinanza della città con evidenti rischi.
Noi tutti, l'ing. Stefanutti, il direttore delle prove di volo ing. Meneghini, il progettista degli impianti elettrici ed elettronici ing. Bartoli, il capotecnico Giovanardi, i tecnici Magara, il ten. GAri Pirani (capo Ufficio sorveglianza tecnica) ed io aspettavamo con ansia l'arrivo: al tramonto il Sagittario era a Pratica di Mare.
Il mattino successivo, durante lo scarico, la gru "scarrucolò" e il velivolo urtò il pavimento dell'hangar con il carrello ancora chiuso. Per fortuna i danni furono lievi ed il giorno successivo potemmo ricominciare i rullaggi. Questa volta la lunghezza della pista di Pratica permetteva il raggiungimento di velocità molto più elevate di quella che era stato possibile toccare a Pomigliano.
Queste prove venivano effettuate nelle ore in cui era ferma l'attività del 4° Stormo che nello stesso periodo si era spostato da Capodichino a Patica, con i piloti che avevano iniziato i "passaggi" sull'F-86E di recente dotazione.
Per un paio di settimane, si continuò con i "salti di pulce", a velocità via via più elevate. "Si" continuò: perché "lui" ed "io" eravamo entrati in confidenza e tutti e due (che strano: un aeroplano coi sentimenti?) aspettavamo con ansia il giorno del primo volo. Avevamo provato tutto: il motore, i freni, il paracadute di coda, l'efficacia degli alettoni e dell'elevatore, più e più volte.
La sera del 17 maggio eravamo pronti. L'ing. Meneghini, l'ing. Stefanutti ed io avevamo pregato di non divulgare la notizia che il mattino successivo sarebbe stato effettuato il primo volo. Infatti '" alle 9 del 18 maggio l'aeroporto era pieno di autorità dell'IRI e dell'AM a cominciare dal capo di stato maggiore gen. Raffaelli, ispiratore del progetto del "caccia leggero".
Facemmo buon viso a cattivo gioco.
Feci con calma il controllo esterno, salii a bordo, spuntai con pignoleria tutta la mia check-list, misi in moto ed iniziai a rullare verso la testata della pista 13.
Allineamento, freni, messaggio alla torre e tutto motore dentro. Parametri regolari, pressioni e temperature a posto. Stavo per mollare i freni, quando improvvisamente la lampadina rossa della bassa pressione carburante si accese: il manometro, però segnava pressione giusta. Avevo fatto installare a bordo due sistemi di controllo per ogni impianto, con sensori separati. Ridussi al minimo il motore, poi diedi ancora piena potenza. Niente da fare: la lampadina rossa restava pervicacemente accesa. Malinconicamente, tornai rullando all'hangar e fermai il motore.
Quando spiegai di che si trattava, alcuni del seguito del generale Raffaelli tentarono di convincermi: in fondo era chiaro che si trattava soltanto del malfunzionamento del sensore. Il manometro confermava che la pressione carburante era regolare. Potevo, secondo loro, andare benissimo in volo.
Fui irremovibile: si trattava di un prototipo costato miliardi e impegno. I due sensori per ogni impianto erano irrinunciabili. Il gen. Raffaelli salì sull'ala e venne a stringermi la mano: lui, da grande pilota qual'era, aveva capito.
Così tutti andarono via e noi rimanemmo lì a lavorare. La sera l'aereo era pronto: il sensore era stato sostituito e tutto funzionava a dovere.
Il Sagittario 2 operativo a Pratica di Mare (foto Franchini)
Lo stesso velivolo al museo AM di Vigna di Valle
Il mattino dopo, il 19 maggio 1956, stava appena spuntando il sole. Sul piazzale dell'hangar eravamo solo i quattro gatti già menzionati. In aeroporto tutti, tranne il personale dei vari servizi, dormivano.
Il motore partì benissimo al primo colpo. Iniziai a rullare verso la pista osservando i saluti festosi degli uomini che avevano realizzato il velivolo. Allineamento sulla testata 13. «Pratica Torre, Sagittario, pronto al decollo». «Sagittario da Torre Pratica, autorizzato al decollo, vento calmo. Comandante, auguri!».
L'accelerazione fu immediata, a 120 nodi su il ruotino anteriore, a 140 il franco distacco da terra. Ecco, finalmente, "lui" ed "io" eravamo nel nostro elemento.
Secondo il programma, salita diritta fino a 1.000 piedi, poi la prima virata a destra della "sua" vita. Comandi dolcìssi'mi, equilibrio ottimo. Nel tratto "sottovento", salita a 2.000 piedi, virata a sinistra, poi ancora a destra, prove di risposta longitudinale a vari regimi del motore, quindi "virata base".
Ecco, ora siamo allineati per il "finale". Giù i flaps, aperti gli aerofreni. L'aereo è equilibrato, risponde bene. Motore ridotto, velocità di avvicinamento (largamente prudenziale) 175 nodi. Poi, in "corto", motore, velocità in decremento, siamo sulla testata, un piccolo tocco alla cloche a tirare. Il contatto è dolce, l'aereo è veloce: mano alla maniglia del paracadute di coda. Si apre subito: la frenata è efficace. La Torre esplode in un «evviva!"». Finalmente anche l'Italia ha un caccia moderno all'altezza dei tempi. Sono autorizzato ad effettuare il backtrack sulla pista ed uscire dal raccordo diretto all'hangar dal quale sono entrato. Capisco subito il perché: tutto il 40 Stormo s'è svegliato e sono tutti, urlanti di gioia, lungo il raccordo. Corrono dietro al velivolo che rulla: una folla di amici, piloti, specialisti, avieri. Mi tirano giù di forza dal cockpit, e il medico di Stormo, il dr. Valletta, mi prende sulle spalle e poi tutti gridando verso il Circolo.
Un attimo la strana carovana si ferma e vedo Stefanutti che mi guarda con gli occhi lucidi di pianto e con evidente commozione.
Al Circolo ci abbracciamo: e così inizia (è ancora mattino abbastanza presto) il19 maggio 1956, quarant'anni fa, giorno indimenticabile della mia vita.
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