mercoledì 1 novembre 2017

Contro il Mare in Tempesta di Tonino Cervi da Aeronautica Gennaio 1994

CONTRO IL MARE IN TEMPESTA
di Tonino Cervi da Aeronautica Gennaio 1994




Sul primo pomeriggio del 31 marzo 1942, nel corso di una ricognizione nel Mediterraneo, un idro "506" della 1460 Squadriglia, di stanza ad Elmas, era stato costretto ad ammarare per avaria in mare aperto, a circa 100 miglia ad ovest della Sardegna.

Giunta la relativa comunicazione al comando della base, scatta immediatamente un'operazione di soccorso, che viene affidata a tre idrovolanti: un "S-66", pilotato dal Ten. Arzenton e due "Cant Z", uno dei quali affidato alla mia guida, con assegnazione per ciascuno di una prestabilita area di ricerca nel tratto di mare senalato. Contemporaneamente prende il mare una torpediniera, la quale però avrebbe potuto arrivare sul posto solo il mattino successivo.


Giunti in zona, un componente del mio equipaggio scorge in lontananza, sulla sinistra, il "506" in piena balia delle onde.

Reso noto il ritrovamento sia alla base di Elmas che alla torpediniera e agli altri due aerosoccoritori, mi dirigo con questi ultimi sull'idro in avaria e, mentre Arzenton, uno dei nostri più esperti ed abili idrovolantisti, si dispone all'ammaraggio e io resto in zona, l'altro velivolo, ritenuta ormai superflua la sua presenza, ci saluta con un battito d'ali e si porta sulla rotta di rientro.

Siamo attorno alle 17,30. Vento teso sui 40/50 km/h, visibilità ottima. Il mare, visto dalla nostra quota, appare appena mosso da onde uniformi e lunghe, segnate da strisciate di schiuma, veramente poche per un vento così forte, caratteristica, questa, di maltempo di recente formazione.

In realtà, il mare era ben diverso da quanto sembrava: e lo si capisce subito dal fatto che Arzenton, nel prendere il mare di prua per ammarare contro vento, va a "piastrellare" ripetutamente, prima di fermarsi nelle vicinanze dell'apparecchio da soccorrere, per una violenta aggressione di grosse e massiccie ondate.

In circa mezz' ora si compie il passaggio dei naufraghi dal "506" all' "S-66" che viene, di conseguenza, a trovarsi stracarico e con tredici persone a bordo in un mare che va continuamente peggiorando.

In simili condizini e con luce ormai crepuscolare tre sono le possibilità che si offrono ad Arzenton per il decollo: prendere l'onda per il lungo con vento di fianco, ma l'ala bassa dell"'S-66" costituisce una grave difficoltà; prendere le onde di petto con vento frontale che avrebbe potuto abbreviare il decollo, ma era come voler forare montagne d'acqua; aspettare l'aleatorio arrivo della torpediniera, la quale, però, nella migliore delle ipotesi avrebbe potuto giungere solo dopo otto-dieci ore, ma un tempo d'attesa troppo lungo poiché il continuo peggioramento delle condizioni del mare si dimostrava veramente esiziale per quell'idro dall'ala tanto bassa da fare corpo unico con i galleggianti e l'abitacolo. Ed è proprio per tali ragioni che vedo Arzenton optare, fidando nella sua grande esperienza, per la prima ipotesi e andare al decollo contro onda e con vento frontale.


Dall'alto non ci si rende conto esattamente di quanto ormai sia agitato il mare, ma, quando Arzenton dà manetta, scorgo i due tozzi scafi che affrontano una prima ondata che quasi li copre, per poi scendere nel cavo delle successive, sollevando ad ogni scontro vaste schiumate bianche.

Pare ad un certo punto che la manovra possa riuscire; ma ecco che, ad un tratto, l'''S-66'' schizza in alto pesante e scomposto e, ricadendo sull'ala sinistra, va in cento pezzi. Il castello motori s'inabissa subito in tanti rottami, che la bufera tende a disperdere, e cui sono disperatamente aggrappati tredici uomini riusciti a saltare fuori dal velivolo o da questo sbalzati in mare al momento dell'impatto con quelle gigantesche e rabbiose onde; ed è la più dolorosa immagine della nostra fragile umanità dinanzi all potenza della natura.

Nel compiere ancora, con dolore e con rabbia, qualche giro intorno per capire meglio la situazione, mi consulto con l'equipaggio ed insieme, tesi ma calmi, consideriamo che la nave, anche se è in viaggio, al suo arrivo non avrebbe trovato più nessuno a galla o ben difficilmente. Intanto, la luce sta calando rapidamente per cui se non ammariamo subito non ci sarà più nulla da fare. Il motorista Boscarino mi assicura che può scaricare rapidamente trenta quintali di benzina per alleggerirci tanto da poter effettuare, poi, il decollo che per il nostro aereo sarà più facile, avendo l'ala alta quattro metri sull'acqua e più potenza.

Fatte tali considerazioni, e d'accordo anche con il secondo pilota, plano con il vento sulla destra, prendendo di mira un'onda molto lunga e quasi dritta, sul fianco della quale dovrei scivolare per qualche centinaio di metri, un po' inclinato contro vento, ben attento a toccare con entrambi gli scafi, contemporaneamente; infatti, se, per un colpo di vento per un'onda "matta", uno degli scafi s'infilasse, sarebbe la fine.

A qualche metro dall'acqua, l'onda prescelta mi appare sempre più grande e più ribollente, il suo avvallamento più profondo; ed anche il vento, che ne sfrangia la cresta in larghe schiumate, sembra ancora più forte.

Un attimo d'indecisione da panico e do manetta per un altro giro. Non so cos'abbia notato, ma, se all'ultimo momento ho avuto quell'attimo di paura, significa che qualcosa non andava; forse la constatazione istintiva che stavo toccando acqua ad una velocità superiore alla solita, pur essendo vicino ala minima anemometrica. Di vento, infatti, ce n'era fin troppo, ma solo laterale.

Compiuto il giro, scelgo un'onda che sembra non peggiore della prima, lunga e ben fatta che dovrebbe permettere di fermarci nel pressi dei naufraghi; avvicinandomi all'acqua la sfioriamo con entrambi gli scafi, veloci, ma nella giusta posizione per mantenerla così, un po' inclinati a contrastare il vento, fino al termine della lunga, laboriosa scivolata.

Sembra che tutto vada per il meglio; senonché alla fine dell'interminabile ammaraggio, l'aereo s'infossa, ormai ingovernabile, in un avvallamento che l'ondata successiva copre totalmente venendoci addosso con una durezza che non sembra propria di un elemento a noi tanto familiare. In quel momento sentiamo anche un colpo come di uno sparo in fusoliera; ha ceduto un tirante d'acciaio dei galleggianti che, investiti da tre quarti, non ha resistito allo sforzo, certamente non previsto in fase di progetto. Peccato, perché eravamo quasi fermi.

Per il resto tutto bene.

I nostri amici naufraghi certamente non hanno mai dubitato del nostro intervento. Infatti, siamo lì con loro ed incominciamo a raccoglierli; qualcuno era sul battellino ancora gonfio per il precedente trasbordo, altri, con o senza salvangente, attaccati ai pezzi di legno più grossi dell"'S-66". Con immenso piacere constato che non manca nessuno e che, pur frastornati, contusi e fradici, non c'è alcun ferito grave.

Espressa la mia intenzione di decollare non appena Boscarino avrà mollato i 3000 litri di carburante in più, mi trovo dinanzi ad un preoccupante contrattempo: Boscarino mi dice che, purtroppo, la valvola di scarico rapido si è bloccata.

Ormai è guasi buio e con quel sovraccarico, mare in tempesta e l'impossibilità di scegliere l'onda giusta, tutte condizioni che mi obbligherebbero ad lungo, difficilissimo decollo, mi rendo conto che, per il momento, la scelta più ragionevole è quella di attendere il placarsi della tempesta o l'arrivo della torpediniera, cercando nel frattempo di tenere l'idro in modo da non fargli subire danni.

Ed è ciò che faccio.  Lente, cariche di una crescente ansia e dense di pensieri facilmente immaginabili, scorrono le ore, mentre, inoltre, tutti gli uomini recuperati, chiusi dentro la fusoliera, bagnati fradici come sono, infreddoliti,
sottoposti ad un tremendo ballo. cominciano a stare male e, da via, sempre di più.

Con l'intenzione di tenere sù il morale di ciascuno, e anche il mio. non trovo di meglio che insistere sulla solidità del velivolo e come. se si riesca a tenerI o con la prua a.: mare, esso venga a tra formarsi un inaffondabile catamarano, dari gli scafi stagni di tredici metri dei quali è dotato e con un interstizio di sette. Dal canto suo, il secondo pilota, che anche in questa occasione non ha perduto il proprio abituale buonumore, fa altrettanto con uscite di vario genere.

Scende la notte e con l'oscurità che ci viene ad inghiottire cresce in ognuno di noi la tensione, l'apprensione. Si calmerà alla fine il mare, arriverà la torpediniera? E quando? Quando?

Verso le due di notte, ora in cui penso che la torpediniera non dovrebbe essere lontana, prendo a lanciare, ad intervalli di venti minuti. razzi di segnalazione, sperando che nei paraggi non si aggiri qualche ricognitore inglese.

Dopo il settimo lancio scorgiamo, finalmente, nel buio, rotto solo a tratti dalle pallide fosforescenze prodotte dalle schiumate delle onde, una luce di risposta. La torpediniera che tanto coraggiosamente ha affrontato quel mare così ostile, ci ha "veduto".
 
 

La speranza, ridotta appena ad un tenue filo, riaffiora di colpo nell'animo di ognuno.

Giuntaci la nave vicino, messasi con un'abile manovra sopravvento e accesi dei fari, effettuiamo, con l'aiuto dei bravissimi marinai, il trasbordo, dei naufragi dando ovviamente la precedenza ai più malconci, paurosamente sballottati da quelle terribili, impietose onde, passando dal velivolo sul battellino, da questo su una scialuppa calata dalla torpediniera, e da questa sulla nave. Quindi, tolto dal 506 ~ quanto non dovevamo lasciare. messo l'aeroplano con la prua al mare e ben legato all'ancora galleggiante, anche il mio equipaggio ed io saliamo sulla torpediniera.

Abbiamo salutato il nostro "Cant n un sincero affettuoso "arrivederci". Ma che struggente pena nel vederlo. a mano, a mano che la torpediniera si allontanava, farsi sempre più piccolo. È stato come distaccarsi da un fedele amico.

Sì, proprio così, perché per ogni aviatore il suo aeroplano è un amico.

Per tutta la mattinata incrociamo con la torpediniera in prossimità del nostro aereo. Osservo quanto sia brava questa gente di mare e quanto è ammaccata questa vecchia nave che. sono la spinta da vento s'inclina di oltre 30 gradi facendo la spola da Nord a Sud e viceversa.

In un primo tempo non capisco lo scopo di quell'andirivieni, fin che il Comandante non esprime la sua intenzione di agganciare l'areo con un cavo d'acciaio, come fosse un natante qualsiasi, per rimorchiarlo fino al porro di Cagliari. Dopo qualche ora. però, di solitarie riflessioni, egli ordina il rientro perché deve essersi reso conto che i danni che noi avevamo evitato all'idrovolante con decisioni istantanee, consuete per chi vola, li avrebbe creati la nave al primo strappo, dato che ogni aereo, anche se pesante cento quintali, è un complesso di metalli leggeri e, quindi, da trattarsi di conseguenza.

Rientrati così, sani e salvi ad Elmas, viviamo tutta la gioia dello scampato pericolo, ma con un pensiero inchiodato

nella mente: che fine avrà fatto il nostro generoso "Cant Z 506", in mezzo a quel mare infuriato?

Passata questa tempesta, la più brutta di quelle che affrontato assieme al mio magnifico equipaggio, esso viene dopo tre giorni avvistato - e di colpo un altro moto di gioia ci afferra - ad oltre 200 miglia ad EstSud Est del canale di Sicilia. È intatto, tutto bianco brillante di sale, quasi fiero di sé per avere vinto un'altra sua battaglia, e forse la più entusiasmante in quanto combattuta contro quella tremenda, impietosa forza che scatena l'infuriare di una tempesta in mare.

Ritrovato parimenti, poco più lontano, l'altro "506", quello che aveva ammarato per avaria.

Ed è, così, che anche i due velivoli, che erano andati alla deriva avendo perduto l'ancora galleggiante per il cedimento del canapo ai violenti strappi causati dalla furia di quei tre giorni di bufera, se ne tornarono a casa, rimorchiati con la dovuta cura e festosamenti salutati.

Poi, un'incredibile sorpresa. Messo il mio aeroplano sul suo carrello e provati i motori, questi partirono immediatamente.

Una profonda commozione afferrò in quel momento il mio cuore. Mi sembrò, o ne fui certo?, che il loro rombo fosse un'I'umana" espressione di gioia per essere tornato tra di noi, tra i suoi amici, e dirci:

"Vedete come sono stato bravo e come sono ancora "in gamba"?

La stessa commozione che sento ancora oggi, ad oltre cinquanta anni di distanza, nel ricordare questo episodio.

E nel rivedere, uno ad uno, i volti degli uomini del mio magnifico equipaggio e di tutti i naufraghi di quel volo, il mio pensiero va anche a te, caro, indimenticabile, generoso compagno di tante avventure tra mare e cielo.

Tonino Cervi

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